Nel 2020, l’artista Maria Villano riallaccia le sorti della sua vita artistica e privata e le sublima in Maghzen: un “magazzino”, un vero e proprio spazio di “creazione” e condivisione delle sue opere pittoriche e scultoree. Per lei, quest’anno segna, dunque, la riappacificazione degli spazi nei quali si sono snodati i suoi giorni: con Maghzen rientra “a casa” da Roma la sua vita artistica per prendere ampiezza nella sua città natale, Formia (Lt), nella quale molti anni fa aveva fatto ritorno solo lei.
Era il 1996. La scultrice formiana ha deciso di mettere in pausa la sua vita artistica per dedicarsi ad una grande opera che fosse davvero quella più reale ed esclusiva, suo figlio Arturo. Di punto in bianco, stanca di relazioni superficiali, della necessità di presenzialismo, lascia il mondo delle mostre personali e collettive, delle pietre miliari dell’arte contemporanea e decide di dedicarsi alla “creazione” della sua famiglia; per necessità, rispolvera il titolo dell’Accademia delle Belle Arti e varca la soglia della scuola pubblica in cui comincia ad insegnare educazione artistica.
Quella del 1996 è una donna già adulta figlia del suo istinto, che vive il tempo in un “continuum” in cui tutto inizia, finisce e si trasforma.
Bambina aveva deciso che si sarebbe dedicata all’arte, nonostante un aneddoto che ancora ricorda: suo zio, appreso della sua passione, le disse «ti vuoi mettere a creare? Ti vuoi mettere a livello di Dio? Stai attenta!». La faccenda ovviamente non la scoraggiò.
Pre-adolescente avrebbe voluto scegliere di frequentare un liceo artistico che l’instradasse verso la realizzazione di questo suo desiderio; osteggiata dalla sua famiglia, aspettò il diploma per aderire alla formazione della Scuola libera scultura e poi frequentare l’Accademia delle Belle Arti di Roma. Erano gli anni a cavallo tra la fine dei settanta e gli inizi degli ottanta del Novecento, in cui gravitavano nomi come quelli di Giovanni Guerrini, Antonio Scordia, Antonio Capaccio, Felice Levini; in Italia – e non solo – imperversava il movimento della Transavanguardia, una sorta di sistema dominante– come racconta la stessa Maria – rispetto al quale lei era tra gli artisti ribelli ed impegnata in una ricerca autonoma; una ricerca che la porta a conoscere e a seguire gli artisti del gruppo ” S. Agata dei Goti”, a Roma.
Maria è una donna, giovane, alla ricerca della sua identità artistica in un mondo dell’arte alla ricerca della sua dimensione; non viene supportata né ostacolata dagli ambienti nei quali si inserisce e che cerca di solcare con la sua cifra artistica. All’iniziale linguaggio pittorico – che si cristallizza agli anni ottanta – l‘idea di lavorare sull’essenziale, la tecnica a togliere che lascia pian piano riemerge la luce, la natura che sottende a tutto, si proiettano sulla scultura, ovvero su un bisogno di “creare” dal quasi-nulla: la pittura finge – spiega la Villano – la scultura crea dal nulla, prende vita. Io do un senso alla vita perché la trasformo. Le sue mani cominciano a forgiare il gesso, passano all’argilla, poi alla terracotta; scoprono il gesso armato per le grandi dimensioni e addirittura, in una generale incredulità, il cemento armato per le sculture destinate agli esterni.
Intanto arriva il 1988 e con esso la sua prima mostra a Torino nella galleria di Eva Menzio; pochi anni dopo, nel 1991, è la volta di Roma nella galleria di Mara Coccia. Le sue opere e lei stessa girano lo Stivale in lungo ed in largo, incrociando artisti come Giuseppe Salvatori, Fausto Melotti e tanti altri; sono sempre i primi anni novanta, quando accetta un lavoro da parte di un mecenate siciliano che le commissiona una grande scultura di cinque metri, divenuta parte di una struttura alberghiera in riva al mare.
Così arriva il 1996, la morte del padre ed una sterzata improvvisa – come quella con cui tanti anni prima aveva abbandonato l’università per i suoi percorsi formativi legati all’arte: torna a Formia, ma non porta con sé le sue opere.
Le “teste” che dominano la sua scultura arrivano solo qualche mese fa – dopo più di vent’anni, benché Maria Villano avesse ripreso a creare già dopo circa sedici anni da quella improvvisa disposizione biografica mai rimpianta – e vanno ad abitare in Maghzen, dove arrivano opere come Giraffe, Grandi Labbra, Monaca, Sentinelle – che tornano spesso, queste ultime, in quelli che lei definisce momenti di autocontrollo – ; c‘è Guerra con le sue teste bifronti, le uniche della sua collezione dotate di occhi, perchè sulla guerra non si può abbassare lo sguardo. Sì perché se tutte le “teste” sono dotate di naso il tratto votato a determinare profilo e personalità, non posseggono invece – universalizzando in parte il loro messaggio – gli altri connotati.
Maghzen raccoglie il tutto della Villano: la versione maltese – spiega – del sostantivo magazzino, l’ho scelta non solo perché graficamente conteneva un Saturno divenuto, con una stanghetta, la Luna e sulla zeta il puntino del Sole, ma anche perché nelle sue componenti ha la radice – mag, radice di tante parole che mi riconducono alla concretezza; e poi c’è – zen, che mi rimanda a tutto ciò che scorre, ai flussi, alle maree sotterranee, al divenire più astratto. Un tutto strutturale impreziosito dalla presenza di mura romane che fortificano quel trascorrere continuo del tempo che le è tanto caro: ci sono le mura romane e ci sto anche io, il tempo è un continuo per ciò che sopravvive.
Ma cosa sopravvive, ci siamo chieste insieme. Probabilmente ciò che resiste al tempo perché si trasforma, ci siamo dette, ed ogni trasformazione parte dalla “testa”: ecco perché le “teste” dominano le realizzazioni scultoree della Villano, che attraverso esse e con esse mette in forma, lasciando che la materia superi anche la forma stessa, la sua rivoluzione artistica, in grado di ripescare nella natura dell’uomo, che è da sempre la stessa nella sua basicità, temi in grado di superare qualsiasi cadenza temporale. Sì, perché per la Villano l’arte dovrebbe, in qualche modo, rinunciare all’attualità, alle brutture dell’attualità, al suo dolore e alla sua drammaticità, per assurgere ad una decontestualizzazione che sia in grado di rievocare e, quindi, proiettare un mondo parallelo, nel quale, perché no, rifugiarsi; come la Villano tra sue “teste” – le sue “anarchetipie” – cambiamento per sé e potenziale di cambiamento per tutti.
Quando ho messo tutte le mie opere in questo spazio, ho pensato che a quel punto avrei potuto anche morire – ha detto Maria Villano, facendo riferimento a quel senso di pace che ti pervade quando senti di aver chiuso un cerchio, di non aver lasciato nulla di incompiuto, ma di desideri in verità ne ha ancora molti.
Maghzen è l’inizio di un’avventura di dibattito artistico che vuole avviare in città, sperando che di spazi d’arte aperti come il suo ne nascano molti altri; la stessa città alla quale piacerebbe regalare la realizzazione di un’opera, nonostante la “distanza” che per tanti anni è intercorsa con la sua arte – interrotta dalla prima mostra del 2019 Para-alleli.
Infine, c’è sempre il sogno più intimo, quello che ne rivela la natura più profonda del suo concetto di preservazione dell’arte, quello per cui un mecenate compri tutte le sue opere in blocco, che – chiaramente – non rivela un desiderio veniale, ma la necessità di tenere insieme il suo racconto artistico.
Di tenere insieme, nel tempo, Maria Villano.