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“Ritorno tedesco con incognita”, il “ricordo corporale” di Scipione

“Richard ricordati che la ragione è solo una piccola fiammella in una grande notte, ma è l’unica luce che abbiamo e se si spegne, non ci si accorge più neanche del buio”. E’ un manifesto d’intenti che seppur giunge nelle pagine conclusive del romanzo “Ritorno tedesco con incognita” (Caramanica Editore – 2017) di Pasquale Scipione, chiarisce l’intento di tutta la narrazione. C’è bisogno di non dimenticare talune crudeltà iconiche della deriva del genere umano, come quelle legate alla seconda guerra mondiale, soprattutto quando i tasselli della storia che ci ha consegnato questo presente sembrano farsi più lontani: è allora che gli istinti più crudeli dell’umanità si fanno largo e incarogniscono il mondo.

Così quello dell’autore sembra un “bisogno corporale” che nelle pagine del suo romanzo diventano un “ricordo corporale” e ritraendo contorni di una vicenda per tutte, come le storie purtroppo di casa in molte famiglie che hanno vissuto le tragedie di quel conflitto, rispolvera, quasi sottraendoli al buio di un tappetto troppo inspessito dal tempo, gli uomini oltre le divise, i loro valori di pace, il sangue versato ingiustamente, in nome di una guerra che neanche ti apparteneva.

Lino è ormai un adulto quando ripesca i ricordi di suo padre al servizio dei tedeschi assiepati al Castello di Gianola, nella città di Formia, quando fa la conoscenza di Richard e Brunilde, una coppia dell’Alsazia tornata in Italia per finire un puzzle esistenziale che pecca della mancanza di un tassello: quale destino è realmente toccato in sorte al papà di Brunilde? Militare tedesco, come il papà di Richard, entrambi di stanza a Formia prima di avere gli Alleati alle porte, di lui neanche una traccia, una tomba da usare foscolianamente.

Preso ci si accorge che a sovrapporsi diventano diverse necessità di “pace”: la pace di Brunilde, la pace del suo rapporto con Richard tormentato dal suo vuoto esistenziale da colmare; c’è la pace che evoca l’autore, quella da custodire a costo di ogni sacrificio, è poi, s’intravede, con infinita dolcezza, la pace dell’autore di sapere il ricordo paterno al sicuro tra queste pagine.

E l’autore sembra essere Lino, in particolare quando le sue convinzioni e i suoi sentimenti si sdoppiano nel dualismo della coppia che va a cercarlo spinti dai racconti di famiglia ; soprattutto quando Brunilde afferma: “la sua generazione, per fortuna, non aveva avuto esperienza diretta su quanto l’idiozia degli uomini potesse generare mostri e venerarli al punto di sacrificarvi i propri simili”.

Lo scrittore è un ottimo illusionista. Si nasconde nel suo testo, dandoti l’impressione di non esserci, ma in una parola, piuttosto che in un rigo, gli sfugge sempre, o quasi, involontariamente o volontariamente, il controllo, lasciando così la porta un po’ aperta: in quella fessura, col coraggio di affacciarsi, c’è lui. Come se in quell’attimo qualcuno dal pubblico scoprisse il trucco, quindi, praticamente la realtà.

E’ in quella realtà che si scorge, sembra esserci anche la paura; la paura di una deriva storico politica, la tangibilità della premessa ad un nuovo buio. Il “ricordo corporeo” diventa un manifesto quando il messaggio prende forma estrinseca rispetto alla storia: “la difesa della libertà e della democrazia doveva essere un obiettivo comune di un’Europa uscita da una tragedia umanitaria”.

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