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“Idda”, il ricordo senza memoria – Michela Marzano

La paura non esiste” è un’affermazione alla quale non si può credere perchè è la paura la condizione imprescindibile affinchè si affermi il corraggio. Tuttavia è una convinzione che può trovare spazio quando è lo stesso coraggio a cancellarla, ma dove lo si trova un sentimento così potente? A rispondermi è stata l’appassionata storia della biologa Alessandra, racchiusa nel romanzoIdda ( Einaudi, 2019) di Michela Marzano.

Idda è prima di tutto un romanzo sull’identità, la memoria e l’indossulubilità delle relazioni che emergono dal rapporto tra due donne – Ale ed Annie – apparentemente lontane l’una dall’altra, per età, sentimenti ed esperienze, ma che invece trovano l’una nell’altra ciò che avevano perduto: una mamma ed una figlia.

Una narrazione ad alto coinvolgimento in un arcobaleno emotivo legato all’amore – tanto da sfociare nel bianco della purezza dei sentimenti stessi – ma che prende piede dalla paura: quella di dimenticare, scatenata dalla malattia neurodegenerativa di Annie – la mamma di Pierre, il compagno con cui Ale convive a Parigi dove si è trasferita da anni, subito dopo l’incidente che le ha portato via la mamma.

Grazie a Idda – “a lei”, Annie – Alessandra -ovvero Ale, la protagonista – comincia a chiedersi cosa rimane di noi quando progressivamente i ricordi ci abbandonano e il mondo che abbiamo intorno si fa nella nostra mente nuovo e accomodante. Pezzi interi di vita scivolano via, si portano via persone, momenti e luoghi, fino a non riconoscere neanche alle volte chi si ha di fronte, anche quando si tratta di un figlio. E’ una condizione che mette paura e può spingere addirittura a rinnegare quanto sta accadendo.

Ma poi c’è il coraggio messo in moto dalla paura. Così Ale, svuotando casa della suocera, coglie l’occasione – riordinando alcuni carteggi e documenti – di ricostruire la quotidianità di quella che era stata una stenodattilografa degli anni Quaranta che – nonostante sembra aver smarrito se stessa – riesce invece a far ritrovare lei, restituendole la sensazione di sentirsi figlia.

Riappiacificata col mondo e centrata sull’essenziale: ciò che resta di un’esistenza dopo aver buttato via le cose superflue o desuete”, Annie la chiama “bambina mia” e riaccende in lei il bisogno di capire di non essere “orfana del suo passato”.

Ale aveva abbandonato i suoi vigneti pugliesi, suo padre – a cui addossava la colpa della morte della madre senza aver avuto però il coraggio di farci i conti – nonché il suo dialetto, dedicandosi esclusivamente alle sue piante.

“Le piante non hanno bisogno di nessuno. Niente legami, niente relazioni, niente di niente”.

Guardare indietro e mettere in ordine, però, è l’unico modo per spalancare gli occhi al futuro. Ingenerata questa consapevolezza latente – riemersa d’improvviso con una delle parole della lingua del cuore, il dialetto – Ale raccoglie la forza di farlo e torna in Puglia con Pierre.

“Ci sono parole che creano confusione e parole che rasserenano. Parole che scavano una distanza e parole che costruiscono ponti”.


Con coraggio affronta ciò che è stato, ricuce le sorti della sua persona, lasciando emergere le parole e i ricordi d’infanzia che aveva soffocato. Grazie alla paura, con cui è emerso il coraggio di recuperare la propria storia e scoprire che l’amore sopravvive all’oblio. Grazie a Idda, spariscono gli incubi notturni, la negazione della volontà di diventare madre e compare una verità su tutte:

“L’amore resta, pure quando l’oblio ce la mette tutta per cancellarlo, l’amore non sparisce mai. E questo è più che sufficiente per dare coerenza a ciò che, di coerente, non sembrava avere molto. Tanto, nella vita, i conti non tornano mai: si balbetta e si va avanti a tentoni, tavolta si frana e non ci si rialza, tavolta si ha la fortuna di poter ricominciare daccapo”.

Questo è possibile solo con la paura da cui il coraggio per cui l’amore. Punto e daccapo.

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